Nerviano Storica Pannello 17

Monastero Olivetani – Curta di Sòci (Foto anni 50) 

Il Monastero degli Olivetani oggi è conosciuto da tutti come il Municipio del Comune di Nerviano e molti hanno appreso  – magari marginalmente – solo le vicende di questo antico edificio riferite alla sua funzione di cenobio monastico. In realtà c’è una Storia, molto meno aulica di quella scritta sui libri di testo, ma animata da persone e vicende che la nostra memoria pian piano sta dimenticando.

Il Monastero olivetano di Nerviano, con l’annessa chiesa dedicata a Santa Maria Incoronata, venne eretto dai monaci della Congregazione degli Olivetani grazie all’autorizzazione concessa da Galeazzo Maria Sforza ad Ugolino Crivelli ed a partire dal 1468 attraversò oltre tre secoli, nel corso dei quali acquisì notevoli possedimenti fra i quali circa 2.500 pertiche di terreno, mulini e case, scampando alle soppressioni degli ordini religiosi attuate nel 1649 e nel 1781, senza però poter evitare la chiusura avvenuta nel 1798 a seguito della dominazione napoleonica.

Negli anni successivi alla soppressione il Monastero venne diviso in maniera diagonale ed acquistato dalle famiglie Gardella (la parte sud est) e Marzorati (la parte nord ovest, poi donata nel 1904 all’Ospedale Maggiore di Milano) iniziando una nuova vita accompagnata dall’uso secolare di quello che ormai era stato un complesso monastico.

Sorte piuttosto particolare toccò all’antica chiesa, che venne mantenuta al culto per alcuni anni a favore degli abitanti oltre Olona e successivamente data in custodia a don Roberto Montoli, dal quale passò in eredità ai fratelli, subendo una serie di rimaneggiamenti fra cui la demolizione delle volte, l’abbattimento dell’abside e delle cappelle verso piazza Manzoni e la realizzazione di solette e tramezze al fine di adeguarla ai nuovi usi, ovvero abitazioni e – nella ex chiesa – un macello con  annesso negozio per la vendita di carni…

Analogo destino toccò agli ambienti comuni del cenobio situati al piano terra e alle celle dei monaci poste al primo piano: si procedette con la classica divisione dei cortili lombardi, quindi grandi cucine nella parte bassa e sopra le camere, anche se in alcuni casi un grande locale doveva servire a tutta una famiglia anche se numerosa… vennero realizzati tratti di ballatoi a ringhiera ed alcune campate del colonnato superiore vennero murate.

Solo l’ala della foresteria non venne occupata dai popolani, in quanto divenne l’abitazione saltuariamente utilizzata dalla famiglia Gardella quando si spostava a Nerviano dalla propria residenza milanese.

Nella parte terminale dell’attuale biblioteca si installò inizialmente uno dei primi opifici nervianesi, la tintoria Abbiati-Gardella, caratterizzata da numerose vasche in cemento all’interno dei quali venivano immersi i tessuti da tingere. Sino ai primi anni ottanta del secolo scorso era ancora visibile un ballatoio in legno sotto la gronda del tetto lungo l’ala fiancheggiante il fiume Olona sul quale venivano poste ad asciugare i teli trattati dalla tintoria: l’effetto visivo era quello di lunghi festoni colorati cullati dal vento…

L’ambiente di maggior prestigio era costituito dai locali che oggi sono occupati dalle prime sale della biblioteca e che al tempo erano un pregevole appartamento, con tanto di terrazza lungo l’Olona e soggiorno rivestito in legno, abitato dalla famiglia Marilli il cui capofamiglia era un maresciallo dei carabinieri, mentre la moglie era la mitica maestra Mercedes Rapini, ricordata come insegnante di molte leve di nervianesi. Completavano la famiglia le sofisticate figlie Eda e Fana.

Nel primo ventennio del 900 nei locali della tintoria si installò una falegnameria i cui titolari erano i soci Giovanni Dellavedova e Raffaele Grassi… al Giuann e al Rafaell di Sòci, la cui attività diede il nome al chiostro, che divenne così la Curta di Sòci!  La parte oggi recuperata con un chiostro in legno e vetro era invece denominata la Curta di Paisan, in quanto vi erano le stalle, i fienili (poi demoliti) e l’aia.

I locali del Monastero, oltre alla macelleria del Brusen  Muntoeu e alla falegnameria ospitavano anche l’attività di calzolaio del Primm Busòtt  e quella di sartoria della Nèta di Sòci (figlia del Giuann) che dava lavoro a numerose ragazze impartendo loro rigidi precetti cristiani…

Spiegata la particolare origine del nome sale sicuramente la curiosità su chi erano gli abitanti di quella che ormai era a tutti gli effetti una corte che, ancorché di grande valore storico e architettonico, vedeva lo svolgimento della vita quotidiana che caratterizzava tutti i cortili nervianesi…

Su per giù negli anni trenta le famiglie che risiedevano nelle abitazioni della Curta di Sòci erano una ventina e rendevano il chiostro animato e pieno di vita, certamente in termini esponenzialmente altissimi, se paragonato ai tempi in cui era luogo di meditazione e silenzio da parte dei Padri Olivetani, soprattutto quando la rizzaa del chiostro diventava un grande campo da calcio che vedeva impegnati grandi e piccini in memorabili partite di fòball!  Ma erano soprattutto i giochi dei bambini a ravvivare la grande corte: la rèla, i ciapitt, i bugett, ta ga l’è, ruba mazzett le attività che andavano per la maggiore, sotto l’occhio vigile delle mamme, che utilizzavano i colonnati come una “prolunga” della casa, lavando i panni nel mastello, stirando o facendo al scalfen

I cognomi erano quelli ricorrenti in paese: Dellavedova, Bollini, Pastori, Bosotti, Parini, Grassi, Grassini, Musazzi e tutti con caratteristiche particolari che andavano a comporre un mosaico di umanità singolare quanto il luogo in cui queste famiglie vivevano.

L’angolo ovest e il porticato della “Campanina”

Certamente la figura più caratteristica della corte – una sorta di portinaia che teneva tutto sotto controllo  – era la Campanina, al secolo Giuseppina Olgiati, un “donnino” che passava agevolmente il quintale e che abitava con la famiglia nell’ala nord-ovest del chiostro e che possedeva una sorta di serra davanti all’alloggio, completata da un pollaio ricavato nelle bocche di lupo della sottostante cantina…

Contraltare della Campanina era il Ginetto Redepaolini, soprannominato Pigòtta (bambola) per la sua altezza non proprio da corazziere, che arrotondava il salario da operaio alla Stamperia risuolando scarpe nel dopo lavoro; abitava con la numerosa famiglia in un solo locale: otto persone in meno di trenta metri quadrati, proprio altri tempi!

Non mancava ovviamente la famiglia di artisti, i Giudici, sei figli: i maschi abili suonatori di strumenti a corda e le femmine organizzatrici di balli la domenica pomeriggio o il sabato sera con amici e familiari, così come non mancavano figure da libro Cuore quali la Luisina pera-pui (spenna polli) una trovatella  che viveva sola e in povertà, sostentandosi solo in forza dei miseri guadagni che otteneva con il proprio lavoro: spennare oche, galline e capponi, ricavando piume per cuscini; o i fratelli Viganò, soprannominati Cinghei (cinque centesimi): fratello e sorella giuanasc apparentemente insignificanti ma carichi di tenerezza, simpatia ed altruismo.

Alcuni abitanti della Curta di Sòci lavoravano all’Unione Manifatture (Stamperia), altri facevano i pendolari a Milano, altri ancora i contadini o gli artigiani di bottega… lavori umili e duri, come dura era la vita delle casalinghe, scandita da orari “monastici”: sveglia alle cinque e mezza del mattino e riposo dopo le undici di sera dopo una giornata senza soste!

Una corte di questa dimensione e con così tanta gente diventava anche la tappa imprescindibile per tutti quei venditori ambulanti oggi scomparsi, come il Ruell fruturoeu, il Giuanen strascee (che raccoglieva rottami di ogni genere in cambio di candeggina o lisciva), l’Anciuee che vendeva alici e acciughe sotto sale, senza dimenticare i primi Pontremolesi che si fecero strada a Nerviano  inizialmente come venditori ambulanti di tessuti.

E naturalmente non poteva mancare – alimentata dalla  fantasia popolare – la leggenda di un cunicolo sotterraneo, che avrebbe allacciato l’ex Monastero con la Chiesa della Madonna di Dio ‘l sa: se ne è sempre parlato in paese e rappresenta un “classico” per molti edifici storici che vengono accostati a storie di misteri e tesori; l’immaginario collegamento partirebbe dalle cantine del Monastero per giungere dopo circa un chilometro alla Chiesa – un tempo completamente isolata – della Madonna di Dio’l sa e la narrazione conteneva anche il dettaglio non irrilevante che, a metà del tragitto ci si sarebbe imbattuti in una stanza contenente addirittura un vitello d’oro! Una variante parlava di una chioccia con i pulcini, ovviamente sempre d’oro… Probabilmente il vitello scaturiva da reminiscenze bibliche, mentre la chioccia da racconti riguardanti il tesoro longobardo della cattedrale di Monza…  Ad ogni buon conto, non si è trovato nulla che facesse pensare a passaggi più o meno nascosti e ciò va unito al fatto che nonostante tutte le costruzioni realizzate nel corso degli anni nelle aree fra il monastero e la chiesa non è mai stato ritrovato nulla che testimoniasse la presenza di un collegamento sotterraneo. Quindi nessun mistero? Se purtroppo non abbiamo alcuna prova che possa suffragare l’ipotesi di un passaggio segreto vi è però una spiegazione alla leggenda: sotto l’attuale Ufficio Anagrafe esiste uno scantinato che proseguiva anche nell’adiacente cortile che affaccia su via Marzorati e che un tempo era abitato dai contadini addetti alle proprietà dei monaci Olivetani. Per un certo periodo i due tratti erano separati da un cancello in legno e soprattutto per i più piccoli abitanti della Curta di Sòci “nel buio oltre il cancello” partiva un misterioso cunicolo… di fatto era la cantina che proseguiva ancora per pochi metri!  Qualche decennio fa il cancello è stato sostituito da un solido muro, ma i due tratti di scantinato esistono ancora e sono la spiegazione di come è nata la leggenda.

Esistenze, gioie e dolori si sono succedute e alternate sino agli anni settanta, quando la Curta di Sòci si è progressivamente spopolata e il complesso è stato acquisito dal Comune di Nerviano, che nel 2003 ne ha fatto il centro civico e amministrativo dell’intera comunità.

Questo scatto fotografico, quindi, che ritrae il colonnato con i panni stesi ad asciugare, ci ricorda quella parte di vita del Monastero – che è durata in verità duecento anni – che tutti sembrano aver scordato, al punto di considerare incredibile la presenza di una macelleria in una chiesa rinascimentale o una falegnameria sotto un chiostro quattrocentesco… ma anche questa è la nostra storia, una storia magari con l’iniziale minuscola, ma che è stata scritta da tante persone con le stille del proprio sudore, la fatica del vivere e l’amore nel crescere i propri figli.

Testo curato dal Gruppo “Pro Memoria Nerviano”

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